H O M E P A G E

"Attraverso gli occhi .... la realtà"

La parola avventura, nonostante il trascorrere degli anni e dei modi di viaggiare, per me, non ha ancora perso il suo significato: i grandi spazi e gli aperti orizzonti accompagnati sempre da un po’ di timore, continuano ad essere uno stimolo per la conoscenza di nuovi paesi. Per questo, “Viaggi senza ombrello”,il riassunto delle mie esplorazioni iniziate nel 1969, ha avuto il suo seguito naturale che mi ha permesso il raggiungimento di altre mete.

Nella descrizione di questi ultimi viaggi continuerò ad usare la stessa lealtà adottata precedentemente raccontando i fatti come sono avvenuti, descrivendo le cose come le ho vissute…da semplice osservatrice, con l’ambizione di suscitare ancora qualche curiosità e soprattutto qualche emozione permettendo, al lettore, un’evasione dalla solita routine.

Sono consapevole che molto spesso ci vengono proposti emozionanti racconti scritti da reporter e bellissimi documentari trasmessi dai vari net work, ma il mio intento è quello di dimostrare che anche esseri umani esageratamente normali come me ed Alfredo, con tutte le proprie paure, possono affrontare e raggiungere mete ambiziose.

 

1999 –  Etiopia, Valle dell’Omo – che può essere definito  un viaggio nella storia in poiché la “terra delle facce bruciate” è l’ unico paese subsahariano che possiede una cultura scritta, ricche tradizioni cristiane ed un passato colmo di splendore che si contrappone  ad un futuro pieno di incognite sul quale è troppo arduo fare previsioni. Un’esperienza che ci ha fatto comprendere come le carestie e le guerre che da sempre dilaniano questo vero e proprio mosaico di gruppi etnici con culture e religioni diverse, abbiano potuto trasformare un paese che ha visto ricchezze inenarrabili, in una realtà in condizioni economiche di fame e di miseria.

Risulta molto difficile capire da dove potrà mai cominciare un’opera di ricongiungimento dei popoli, di tolleranza tra le diverse religioni e… di buonsenso!

C'è capitato di dare abiti a chi li aveva laceri o ne era completamente privo, ci siamo trovati nell’opportunità di distribuire medicinali e disinfettanti, ci siamo imbattuti in ragazzi che cercavano libri, a cui abbiamo lasciato fogli e penne per poter scrivere…alcuni ci hanno chiesto l’indirizzo per quando e se fossero mai venuti in Italia.

 Una goccia in un mare di necessità, ma pur sempre qualcosa di concreto!

Si fanno convegni, si tengono conferenze internazionali, si presentano progetti megagalattici, si parla di cancellazione di un debito che queste nazioni non potranno mai pagare, tutto fumo con cui i “Grandi della Terra” tentano di tacitare le loro coscienze.

Quasi quotidianamente si firmano trattati di pace e si sottoscrivono accordi,  quasi quotidianamente esplodono guerre razziali, guerre tribali e guerre ideologiche che disattendendo ogni firma ed ogni trattato, stanno a dimostrare che senza un’adeguata educazione, i popoli, ritenendo questo l’unico modo di ottenere giustizia, continueranno a combattere utilizzando  armi fornite da quelli che organizzano convegni, tengono conferenze e presentano progetti megagalattici.

 

2000 – Venezuela – Brasile, Pico da Neblina – un ritorno in Amazzonia, terra che non amo particolarmente e sostanzialmente mi annoia, perché i lunghi percorsi in canoa ripetono sempre la stessa coreografia: un fiume più o meno largo con le sponde ornate dalla solita vegetazione lussureggiante. Solo l’utilizzo di piccoli velivoli, permettendoci di ammirare la foresta dall’alto, ci ha rivelato le molte ferite inferte dai deforestatori che, con grande incoscienza, abbattono spazi sempre maggiori di selva contribuendo a rendere improduttivi quei territori che in breve tempo subiranno un processo di desertificazione.

Abbiamo  la presunzione di dare lezioni a  popoli vissuti da sempre nella selva senza neanche ascoltarli, senza tener conto della loro conoscenza delle piante che hanno permesso loro di curarsi e di mangiare, delle abitudini degli animali che hanno loro concesso di difendersi e di sfamarsi,  degli alberi che... sorreggono il cielo!

Anche gli Yanomami, quelli che più si stanno difendendo dagli effetti devastanti della civilizzazione non volendo neanche far parte di alcuna delle organizzazioni che rappresentano gli indios, quelli che ci hanno insegnato a muoverci in quel selvaggio groviglio verde, in parte, sono stati contagiati dai contatti con i  bianchi. Mi è sembrato un insulto la richiesta di farmaci avanzata da loro che hanno in natura piante dalle proprietà curative, molte delle quali ancor oggi utilizzate nella nostra farmacopea. Naturalmente non ho pensato alle  malattie portate dall’uomo bianco di cui  non possono conoscere i rimedi.

Sono state operate disinfestazioni di massa per liberare i popoli dai parassiti che li torturavano, ma i cercatori d’oro che l’hanno invasa, hanno  introdotto  droghe, armi e il mercurio fortemente inquinante, uno dei maggiori flagelli ecologici della foresta amazzonica; i marreteiros, commercianti ambulanti che viaggiano su piccole imbarcazioni, pagano il sesso con la cachaca che portano sempre con se. Tutti mirano a spremere ogni possibilità di guadagno  con gran disprezzo per gli indigeni e per la natura.

Lo sfruttamento della sessualità che prima era esercitata in modo spontaneo e semplice, ha ingigantito a dismisura l’esercito delle donne indie dedite alla prostituzione in cambio di poche carabattole.  Esse non conoscono le malattie veneree né sanno come evitare una gravidanza e stanno pagando a caro prezzo  la curiosità che le ha portate ad avvicinare l’uomo bianco così diverso da loro.

Dal centro del Rio Negro  si vedono  palazzi di Manaus, resi evanescenti  dallo smog perché nessuna delle attività impiantate è stata pianificata per valorizzare le risorse locali o per non distruggerla, in Canaima tralicci e infrastrutture connessi ad un progetto elettrico,  stanno invadendo quel paradiso trasformandolo in un inferno per i pemones:  speriamo che l’esito del destino amazzonico che un tempo, come l’anaconda, fagocitava ogni cosa distruggendola,  non sia la sua scomparsa perchè fagocitata da una cappa di fuliggine industriale.

 

2001 – Sudan – Egitto – una delusione se penso che ci è stata negato il permesso di  visitare  zone che avremmo voluto vedere e di conoscere i Nuba come ci eravamo prefissi,ma ci ha aperto inaspettatamente quelle porte che si erano chiuse nel nostro tentativo della Cape Town to Cairo by road consentendoci di completare la Transafricana interrotta nel 1997, per difficoltà diplomatiche.

 Un mese trascorso in Sudan mi ha permesso di constatare quanto il sud, considerato zona di guerra, sia lasciato in isolamento spesso irraggiungibile anche dagli aiuti alimentari, di vedere la triste presenza di enormi campi profughi dove vengono raccolti i disperati riusciti a scappare alla morte o al sequestro degli schiavisti, di percepire la paura dei missionari considerati nemici della sharia, di camminare tra i milioni di sfollati che sopravvivono ai margini del deserto alla periferia di Khartoum, di verificare l’assenza di impianti che permettano la produzione di energia elettrica o l’irrigazione dei campi.  

Ogni tanto dai nostri muri siamo osservati dai grandi occhi dei bambini denutriti,  tragiche immagini con cui le organizzazioni umanitarie cercano di sensibilizzare le popolazioni della parte “ricca” del mondo sulla tragica situazione sudanese, ma ora, dopo questa esperienza mi appare  evidente che  queste, anziché raggiungere i destinatar,i forse vanno ad ingrassare solo il portafoglio di pochi fortunati.

Il fotografo che scatta una bella foto  ad un povero bambino caduto nel fango, può  vincere il prestigioso premio Pulitzer, ma avendo agito come un avvoltoio, senza porgere una mano, non potrà mai vincere il nobel per la sua umanità.

Ho costeggiato il Fiume sacro risalendolo dal sud.

In Sudan ho ammirato le piramidi che si stagliano aguzze nell’azzurro del cielo ed i bassorilievi che mostrano episodi di vita dei Faraoni, ho apprezzato la grande civiltà nubiana, ho ascoltato il silenzio dei deserti e mi sono emozionata, ho sperimentato la disponibilità e la gentilezza degli abitanti e mi sono commossa di fronte alla  dignitosa e disarmante rassegnazione di questa povera gente e poi…sono entrata in Egitto. 

Sono rimasta esterrefatta dall’archeologia  colossale di  Aswan  ed ho subito il fascino  della grandiosità dei monumenti di Luxor, ho ricordato la storia di Mosè salvato dalle acque ed ho ripensato a Cleopatra ed alla sua corte voluttuosa, ho  saggiato  il carattere dei suoi abitanti e…ho dovuto prendere atto dei guasti fatti da noi turisti.

Speriamo che le importanti iniziative dirette a salvaguardare il patrimonio culturale del Sahara e la carta etica del viaggiatore sahariano, in cui si asserisce che il viaggio non è concepibile senza l’umiltà ed il rispetto nei confronti delle persone, dei beni e degli usi di ciascun paese, permettano il rispetto dell’ambiente affinché  le sensazioni uniche e indimenticabili provate nel deserto dei Faraoni Neri e dai grandi esploratori non restino solo un ricordo.  

 

2002 – Irian Jaya – le nostre esperienze, questa volta ci portano alla preistoria, all’età della pietra.
Un indigeno che  vive nei pressi di una missione, mi ha fatto capire, esprimendo la sua ammirazione per il sacerdote che umilmente coltiva il suo orto, che non occorrono le grandi opere per conquistare l’anima, ma il rispetto e la considerazione delle culture locali. La nascita di un bambino o l’educazione e l’istruzione  possono realizzarsi senza necessità di costruire grandi ospedali o scuole imponenti.

Alla periferia di Wamena le case edificate per gli indigeni sono occupate dai maiali, perchè gli anziani Dani, hanno preferito le loro capanne così come preferiscono continuare a coltivare le patate dolci anziché il riso come vorrebbe il Governo. Rinunciano ai vestiti che riparerebbero loro dal freddo considerandoli inutili e assurdi per chi vive in foresta dove si adora la pietra sacra.

I giovani, dal canto loro, sono ancora pieni di dubbi quando lasciano la koteka, ma cercano di capire l’importanza degli abiti e delle medicine, riescono a coniugare i riti tribali con il cristianesimo ed a vedere negli aerei che passano sulle loro teste, uccelli da dove usciranno i loro antenati con gli oggetti dei bianchi.

 In questa terra, non ancora invasa dal turismo perché difficilmente accessibile, non ho visto né telefonini, né occhiali Rayban, simboli da sempre usati per imitare  i  “padroni”, coloro che dovrebbero traghettarli a vivere una vita migliore e neanche parabole satellitari che portano le immagini dal resto del mondo, ma ho visto splendidi spettacoli di una natura non ancora contaminata,

La valle del Baliem, che occupa la conca del fiume circondata da montagne completamente coperte da fitta vegetazione, offre angoli che fanno sognare e che invitano alla meditazione tanto da far dimenticare le difficoltà affrontate per raggiungerla e rappresenta l’habitat dell’uccello del paradiso, del casuario e di altre specie avicole che riempiono la foresta di suoni degni di grandi orchestre.

Sono rimasta molto sorpresa di trovare ancora un mondo molto simile a quello descritto, ai primi del novecento, da Bronislaw Malinowsky, ma fino a quando?

 

La conoscenza dei paesi e delle genti è una scienza  appassionante che fa maturare le persone, che  spesso permette di valutare le notizie e porta a vivere, anche da lontano, gli avvenimenti  di cui si viene a conoscenza.  Sentire sulla propria pelle il rischio del “diverso” – geografico, climatico, ambientale – fa sì che non si possa mai dimenticare anche il più piccolo particolare vissuto in prima persona.

 Qualche volta i ricordi potranno leggermente appannarsi, ma quando si rievocano i fatti e si racconta delle persone incontrate, dei luoghi visitati o delle difficoltà affrontate, tutto riaffiora e sgorgano dalla bocca e dal cuore parole incontenibili quasi come cascate perenni e inarrestabili. Se l’ascoltatore si prende la libertà di interrompere la narrazione sarà quasi odiato non permettendo il completo godimento che nasce dal rivivere momenti irripetibili in qualunque forma siano stati vissuti: piacevoli o spiacevoli, sereni o tormentati.

La curiosità, quel desiderio soprannaturale di conoscere paesi lontani e la chiara consapevolezza delle scelte,  determinante  per approfondire la comprensione di luoghi invece di altri, contribuiscono al conseguimento del  piacere del viaggio scaturito dalla voglia di inseguire realtà fisiche e umane spesso diverse da quelle in cui viviamo.  

Il sostrato di passioni e di impressioni ci aiuta a superare le innumerevoli difficoltà che si incontrano e lo sconforto che ci pervade in presenza dell’ estrema povertà di alcuni luoghi.

Di fronte ad alcune popolazioni che vivono una miseria difficilmente descrivibile, mi è capitato spesso di chiedermi per quali meriti personali io abbia avuto la fortuna di nascere e trovarmi dalla parte “ricca” del mondo, quella dove è permessa un’esistenza decorosa in cui possono regnare ipocrisia, moralismo, buonismo e…la paura.

Ipocrisia che ci impone, di riconoscere capi di stato, arrivisti ad ogni costo, che perpetrano furti legittimati dal loro potere,  arricchendosi in modo spropositato a discapito del progresso dei  popoli, temendone, anzi, la loro presa di coscienza; di accettare gente sordida che emerge da laghi di sangue di milioni di innocenti venduti al macello internazionale della politica più abbietta, gente che per il proprio personale egoismo, ha tutto l’ interesse a mantenere gli Hutu contro i Tutsi, i  mussulmani contro  i cristiani,  il Darfur diviso dal resto del Sudan, le tribù  indios sempre più impoverite degli elementi da cui traggono i mezzi di sostentamento a causa dell’abbattimento indiscriminato degli alberi e dell’inquinamento delle acque.

Moralismo, che creando in noi repulsione e schifo per tutto questo”commercio”,   ci fa conoscere  violenze e turpitudini nonché condannare il disonore dei mercati di carne da letto e…da cannone trasformando,  in cloache puzzolenti, le civiltà in putrefazione in cui le bandiere anziché simboleggiare una patria rappresentano il simbolo di ogni personale egoismo. 

Buonismo… che invochiamo ogni qual volta, ergendoci a giudici, andiamo alla ricerca del colpevole di qualunque  tipo di evento che abbia causato qualche tragedia. Quello per cui, commuovendoci di fronte alle vittime del sistema, delle guerre o degli elementi scatenati della natura, tacitiamo la nostra coscienza inviando qualche euro senza perdere tempo a cercare di capire e di ragionare sulle motivazioni che hanno determinato i drammi, continuando a non sentirci fortunati di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Piangiamo per tutti quelli che si immolano nella falsa luce di un chimerico ideale; ci commuoviamo per quelle genti  che non possiedono il minimo vitale, spesso neanche l’acqua; ci si riempiono gli occhi di lacrime udendo il singhiozzo di centinaia di mutilati e di morti frutto delle stupide guerre che si combattono in tutto il mondo, ma solamente quando le notizie diventano clamorose.

Doniamo gli abiti dismessi, i medicinali, a volte scaduti, qualche euro, ma poi…abbiamo paura!

Ma nonostante i molti tentativi: “ma chi ve lo fa fare?”; “volete fare gli eroi?”; “lasciate perdere e riposatevi in qualche villaggio turistico”, nessuno è riuscito a farci perdere la voglia di vedere e di conoscere. Ci hanno provato a guarircela, ma… viaggiare,  è rimasta la nostra malattia!

Non si tratta della “gran maladie” l’orrore del domicilio di cui parla Baudelaire, o della reazione individualistica di chi non si riconosce più in un’organizzazione sociale da cui si sente soffocare, ma una curiosità di vedere  direttamente quella parte di mondo che i più guardano solo sul planisfero e di conoscere quei popoli e quelle tribù di cui, forse, hanno sentito parlare in qualche documentario.

Come Chatwin, non possiamo essere considerati dei nomadi perché la forza che ci spinge a vagabondare per un periodo dell’anno, è la stessa che ci costringe a rientrare per soddisfare il desiderio di riprendere le nostre abitudini, per ragionare sulle nuove esperienze e per  mettere ordine negli ultimi ricordi.

L’essenza stessa del viaggio, quella che permette di incontrarsi con l’altro e al tempo stesso fa luce in noi, è rappresentata dalla leggenda del Guarani: due uomini provenienti da opposte direzioni, scoprono  di essere alla ricerca dell’orizzonte che ognuno pensa dall’altra parte e, parlandosi, scoprono le genti delle terre da dove ciascuno ha dato origine al proprio viaggio.

Alla ricerca del nostro orizzonte, abbiamo visto paesi di ogni tipo, da quello più primitivo a quello ricco di storia e di passato opulento,  abbiamo conosciuto popoli, cosiddetti civilizzati, e tribù che vivono agli albori del mondo, all’età della pietra e purtroppo, abbiamo constatato che i più disperati, sono coloro che, per vari motivi, si sono trasferiti nelle metropoli alla ricerca di benessere e di ricchezza.

Le baraccopoli alla periferia delle città africane, le favelas brasiliane e le capanne che circondano le città indonesiane, raccolgono  questa moltitudine di genti fuggite, o per correre dietro alla chimera del denaro, o semplicemente per cercare la sopravvivenza che non era più possibile nelle loro terre di origine, diventate improduttive a causa di carestie dovute alla siccità o alle guerre che non ne  permettono la coltivazione.

Ma quanta tristezza negli occhi di questi uomini! 

Ad una delle domande  che ci viene rivolta più frequentemente quando decidiamo di intraprendere uno dei nostri viaggi: “Ma non avete paura ad avventurarvi tra popolazioni che non conoscete o andare a cercare tribù che usano il sangue per stimolare la violenza?” possiamo solo rispondere che, come la nostra pluriennale esperienza ci ha insegnato, le popolazioni primitive sono le meno pericolose finché noi, cosiddetti civili, non insegniamo loro l’inganno, l’ipocrisia e…la sete di denaro.

In Etiopia, con timore,  mi sono avvicinata a quella moltitudine di etnie che parlano lingue del tutto differenti tra loro ed ho constatato che, nonostante l’aria bellicosa e l’esibizione dei fucili, non esiste alcuna aggressività, anzi, spesso hanno dimostrato  disponibilità ad aiutarci. Certo, abbiamo vissuto anche momenti di paura trovandoci circondati o vedendo brandire le armi, sentendoci seguiti od osservando volteggiare dei bastoni, ma quando siamo rimasti impantanati, forse anche per una forma di riscatto, ci hanno lasciato stupiti per la laboriosità dimostrata per disincagliarci.

Menghistu ha fatto migrare la gente del nord, a lui fedele, per soffocare eventuali ribellioni delle tribù che abbiamo incontrato e che vivono emarginate nella valle dell’Omo, spesso in lotta tra loro per rivendicare la proprietà di animali o per esercitare il possesso di terreni fertili e ricchi d’  acqua, però, in queste guerre, anche cruente, nate per motivi dalle origini  antiche, non riesco a  trovare alcun collegamento  con le richieste di denaro per fotografare avanzate dai Mursi, vittime della spirale del consumismo senza ritorno, innescato dall’invasione dei mass media alla ricerca di immagini forti e di scoop.

Gli indios Yanomami, i  feroci tagliatori di teste, vivono isolati in siti quasi inaccessibili e non vogliono essere integrati in alcuna associazione e,  per mantenere la propria originalità, sono costretti a rintanarsi sempre più all’interno della foresta: ma fin quando riusciranno a trovare cacciagione ed erbe per mangiare ed acqua non avvelenata per bere?

Un missionario di frontiera che già alcuni anno or sono ha cercato di denunciare queste violenze,  è stato richiamato ai propri studi al fine di allontanarlo ed eliminare uno scomodo testimone.

Cacciati dalle zone dove avevano trovato un ultimo rifugio ad opera di ricercatori minerari che hanno rinvenuto materiale di grande valore commerciale, alcuni gruppi hanno dovuto accettare di vivere in comunità organizzate in cui svettano le parabole satellitari che mi hanno inorridito e dimostrato, che anche questa tribù sarà presto inglobata, come per molte altre è già successo, nei questuanti delle periferie delle città.

Affamati, analfabeti ed incivili?

Colpevoli di non rispondere ai nostri canoni culturali, stiamo rendendo schiave delle nostre esigenze, tutte le etnie, da sempre autosufficienti, che ora ci chiedono abiti per coprire le nudità che anticamente esibivano senza malizia e pillole per curare il mal di testa o il mal di pancia che prima curavano con i prodotti della foresta e poi… si abbruttiranno nell’alcool per dimenticare la bella vita vista nei film.

Esteticamente sono brutti e visti nel buio della foresta mi hanno fatto paura, ma superata la loro iniziale ed ovvia diffidenza, si sono dimostrati dei veri alleati per alleviare fatiche per noi quasi insormontabili. Abbiamo dovuto far attenzione a non urtare, con i nostri atteggiamenti, il loro modo di vivere, ma all’occorrenza ci hanno offerto le  loro banane.

Le popolazioni del sud del Sudan che si sono ribellate  da quando hanno realizzato che la ricchezza derivante dai prodotti del loro sottosuolo è utilizzata solo per gli armamenti, spesso usati contro di loro , sono  in continuo conflitto con quelle del nord appartenenti al “clan del Governo”che perpetrano rapimenti per mettere i Nuba in stato di schiavitù e impediscono la distribuzione degli  aiuti umanitari che si raccolgono in tutto il mondo per gli sfollati del Kordofan e del Darfur, diventati sinonimo di fame e di morte.

Ogni anno, nel tentativo di sfuggire ad una fine certa, le vittime della carestia provocata dalla siccità e dall’incuria della politica, abbandonano le loro terre: molti non sopravvivono al lungo percorso che dovrebbe portarli  alla salvezza, e molti altri muoiono nei campi profughi, la loro agognata meta,  per le malattie contratte per  mancanza di cibo e di igiene. I missionari, eredi dell’opera di Daniele Comboni, nonostante le persecuzioni che hanno subito e che continuano a subire, tentano di dare assistenza e nascondono ai razziatori di schiavi , i molti bambini che riescono ad ospitare nei loro collegi indipendentemente dalla religione di appartenenza.

Nonostante   il Sudan sia dilaniato da guerre di religione, nonostante la miseria e la fame siano tangibili ovunque, sia nei villaggi che in città, ho avuto modo di apprezzare il grande senso di ospitalità e la profonda onestà che contraddistingue la popolazione.

Coinvolti dagli altri passeggeri, abbiamo partecipato ai cori sulle corriere, abbiamo ascoltato le confidenze di gente che, fiduciosa, ci ha raccontato le proprie vicissitudini, abbiamo dovuto ricrederci sulle intenzioni dell’ Uomo dalla bicicletta: come possiamo pensare che tali manifestazioni  possano nascondere una crudeltà innata?

Anche tra i Dani dell’Irian Jaya  siamo riusciti a squarciare il muro dell’inevitabile iniziale sospetto,   conquistandoci la fiducia con atteggiamenti, sempre e comunque, rispettosi degli usi e dei costumi locali. 

Sono entrata per la prima volta in uno dei  loro villaggi con  circospezione perché intimorita dalla  fama di cannibali e suggestionata dai racconti raccapriccianti delle battaglie combattute con archi e frecce, usati con tale perizia e ferocia da permettere,  nel 1944, di  affondare un sottomarino giapponese.

Il festival  del Baliem, che   mi ha dato l’opportunità di vedere rappresentazioni di battaglie che pensavo appartenessero ormai alla storia o alle riproduzioni cinematografiche, mi ha fatto capire che nei popoli primitivi, l’odore e la vista del sangue creano una ferocia sempre più crescente quanto più cresce la quantità di sangue versato. Cercano di difendersi e di proteggere il loro ambiente senza rendersi conto che l’atteggiamento  violento e  spietato li rende pericolosamente simili  agli animali feriti.

Ospitali verso gli estranei che dimostrano  considerazione delle loro tradizioni, forse per le esperienze vissute, quegli uomini che camminano in foresta nudi e con la zanna di wam infilata nel setto nasale, diventano capaci di compiere atrocità  per paura di perdere identità e territorio. 

Ho attraversato deserti, savane e foreste con la mia vettura o con i mezzi locali, ho navigato molti fiumi con la canoa a motore o usando la pagaia, ho risalito montagne usando le mani per le rocce o scivolando sul fango, ho percorso le strade del medio oriente in periodi di tranquillità o in periodi di fermento;  in Afghanistan ho scambiato le sconfinate coltivazioni di majurana per bellissime piantagioni di fiori, in Venezuela ho ammirato i leggendari tepui, davanti all’Ayers Rock,  il più grande monolito del mondo, sono restata affascinata dal gioco di  colori che opera il sole all’alba, quando lo tinge di viola e di rosa ed  al tramonto, quando lo incendia di rosso fino a farlo scomparire nel buio, mi sono emozionata davanti allo spettacolo offerto dalla caduta dell’acqua delle  cascate più conosciute , ma anche in presenza di quelle meno importanti,  in Sudan ho avuto modo di riscontrare la differente architettura delle piramidi rispetto a quelle dell’Egitto ed ho tratto le mie considerazioni sulle bellezze naturali  che il mondo ci offre e su quelle artistiche che gli uomini hanno saputo e sanno creare.

Sono passata vicino al monte Ararat ed ho attraversato la Palestina, ho visto il luogo di culto dei Mormoni ed i templi induisti, ho visitato alcune moschee ed ammirato le opulenti chiese cattoliche del Sud America, tutti luoghi sacri dove la gente si raccoglie in preghiera e poi…scoppiano le guerre, tribali, locali, nazionali ed internazionali.

Differenti culture e mentalità ci portano a scontri cruenti legati a bramosia  di potere o a reali necessità non soddisfatte, alla volontà di prevaricare  che si contrappone alla volontà di non essere sopraffatti ed annullati eppure continuo a pensare che il male ed il bene in senso assoluto non esistono.

Cosa sono cattiveria e bontà?

Nel mio peregrinare ho incontrato persone che hanno tentato di farmi del male, ma anche tante che mi hanno aiutato. Non potrò mai dimenticare che in Kenya hanno minacciato Alfredo con il coltello per arraffare pochi dollari,  che in Marocco abbiamo rischiato la vita per non essere a conoscenza delle manovre in atto per l’annessione del Sahara Spagnolo e che spesso siamo stati fatti oggetto di sassaiole da parte di bambini e adulti che contestavano la nostra presenza, ma al contrario conserverò per sempre il ricordo dell’armatore egiziano che ha disatteso i suoi impegni di lavoro per aiutarci in un momento difficile o quello del ragazzo colombiano che ci ha fatto passare indenni nelle difficoltà di Turbo e di Medellin, quello del meccanico libico che sotto il sole del Sahara ha usato la fiamma ossidrica per riparare la nostra macchina o ancora, quello dell’autista palestinese che per non arrecarci pregiudizio, non si è sottratto all’obbligo di sostituire una gomma all’auto di un militare israeliano.

Forse la cattiveria è il risultato di errori di educazione. Noi consideriamo cattivi i kamikaze che con le loro gesta creano lutti, uccidendo spesso degli innocenti che per loro non sono tali, perché rappresentano quel mondo che, come gli è stato insegnato, ha fatto loro del male .

Come si fa a pensare che un bambino possa essere cattivo!. Eppure quello stesso bambino, facendo gioire il padre, può essere capace di chiedere una cintura esplosiva.

Quanto alla bontà il discorso diventa ancora più complicato perché in questa parola si scambiano buonismo e pietismo che nulla hanno a che vedere con il puro sentimento.

Personalmente non riesco più ad essere generosa con tutte quelle associazioni, governative e non, che continuamente ci assillano con la raccolta di fondi destinati ad alleviare la fame del mondo e, dopo aver sentito che , dopo anni di raccolte, la fame è aumentata ed aver visto che, dopo migliaia di congressi, le guerre dilagano, mi viene spontaneo pensare che, se ognuno di noi, anziché attraverso altri, avesse destinato direttamente a qualcuno od a qualcosa quel piccolo sacrificio,  forse si potrebbero vedere realizzati alcuni risultati.

Trovo che le nostre figlie, che sono cresciute con noi viaggiando, abbiano una diversa visione del mondo rispetto ai loro coetanei che sono stati tenuti nella bambagia, a giocare con i video game o a leggere fumetti, lontani dalla realtà.

Come tutte le mamme, anch’io ho avuto timore delle malattie, della sporcizia e  della gente, ma ho cercato di affrontare le difficoltà insieme a loro e con loro ho affinato il mio bagaglio di  esperienze, senza pentimenti.

Tutte esperienze che sono contenta di avere vissuto, ma che mi   hanno portato ad avere una mia personalissima teoria sulla vita.

Come il Masai, che può fermarsi o scappare di fronte al leone affamato, ogni uomo può aspettare l’aldilà comodamente seduto o correndo, tanto il risultato è lo stesso ed il finale non cambia.

Io sto ancora correndo, forse saranno le ultime tappe, ma sono soddisfatta di aver realizzato molti sogni.

Da ragazzina ho sempre avuto l’atavica paura di lasciare un libro fatto di pagine bianche, ma grazie al cielo, qualche riga  su quei fogli sono riuscita a scriverla.

Per un sogno sono disposta a rischiare, speriamo che la fortuna che ho avuto in tutte le parti del mondo, continui ad aiutarmi.

Io, continuo ad allenarmi…

Amaly Azzarini

Qusto racconto è tratto dal libro "Attraverso gli occhi...la realtà" - stampato in digitale - vincitore del concorso "Il pennino d'oro".
Amaly Azzarini ha pubblicato anche "Viaggi senza ombrello" - Editrice Italia Letteraria 2000 - vincitore del concorso letterario internazionale "Insieme nel mondo".

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ultimo aggiornamento 20/10/2021